Marilena Pasquali. "Quel che resta (Tano Pisano e la bellezza)"

Cosí le vidi nascere e morire
e passar lor vaghezza in men d'un'ora

Lorenzo de'Medici, Corinto, 1486 ca.

Molta ricerca visiva contemporanea tende a indagare l’inadeguatezza, il disorientamento, la disperazione di questo tempo difficile, e lo fa dando un volto a incongruenze e brutture e muovendosi – nei lavori più interessanti, quelli che non scivolano nel trash o nel kitsch –sul filo sottilissimo che separa denuncia e ironia, gioco al massacro e provocazione linguistica.
Ma vi anche un’altra arte, perfettamente consapevole di quanto sia rischioso un presente-futuro che sta rapidamente avviandosi verso trasformazioni radicali e dagli esiti imprevedibili, un’arte che va in direzione diversa e si esprime con strumenti diversi, in quanto, proprio grazie alla sua lucida consapevolezza della precarietà, della fragilità del mondo, preferisce dedicare ogni pensiero e attenzione alla ricerca della bellezza, per ribadirne la centralità, per salvarne il profumo, per cantarne l’essenza inafferrabile, fatta proprio di quella stessa fragilità e precarietà di cui oggi temiamo le conseguenze.
Tano Pisano ha scelto questa seconda strada, più impervia perchè non soggetta a mode, fortemente interiorizzata, di una energia silenziosa e costante, e la percorre da molti anni con risultati sempre intensi e colmi di poesia, sia che si tratti di abbacinanti paesaggi-miraggio, composizioni con pesci trasparenti che abitano profondità liquide di colore, o nature morte di oggetti dove tutto è forma, non figura, tentativo di andare al di là della superficie, di coniugare presenza e assenza.
La sua pittura pare fatta di niente: tracce di colore sul bianco, intuizioni, frasi visive appena accennate. Eppure la sua estrema rarefazione – e concentrazione – comunica di più, dice cose più essenziali di tante grida che oggi risuonano e lascia una traccia leggera ma persistente, un segno che in se stesso è significato, senza bisogno di altre mediazioni linguistiche, e che vale come la parte per il tutto, riflesso minimo in cui brilla la luce della bellezza.
Come scrivevo qualche tempo fa, «Pisano gioca sulla variante, sulla insistita e quasi accorata ripetizione comunque differente di un modello, colto nelle sue diverse implicazioni. Nascono così le sue ‘sequenze’, caratterizzate da un sorta di furor tassonomico, vere e proprie tavole sperimentali in cui analizza l’anatomia del reale e tenta di coglierne il battito profondo, il respiro vitale. E tutto avviene nella penombra intessuta di luce della sua personalissima vena di spleen, del suo vago quanto persistente umor malinconico, del suo pessimismo della ragione che soltanto nella limpidezza del gesto estetico sa trovare la forza per non cedere alle derive di un tempo presente sempre più frantumato».

Ora la ricerca di Tano Pisano (fors’anche stimolato dal confronto con gli spazi e le pitture di uno dei palazzi più belli di Firenze) si concentra sulla forma e sulla natura del fiore, inserendosi così in una tradizione nobilissima che – solo per restare all’arte moderna – va da Paul Cézanne a Georges Braque, da Auguste Renoir a Giorgio Morandi, da Odilon Redon a Filippo de Pisis. Anche in passato l’artista ha spesso dipinto fiori raccolti in composizioni da ikebana, ma nell’occasione della mostra fiorentina ha portato più a fondo l’analisi del tema, rendendolo protagonista di una pittura ancora più intima e personale, quasi al limite di una gelosa riservatezza, immagine stessa di una meditazione, che in lui si avverte continua e costante, sul tempo che passa, sulla bellezza che svanisce, sulla vita che scivola via troppo in fretta.
Nella sua «ghirlandetta di fior gentile» (Dante Alighieri, Rime, LVI) tante sono le presenze che si accostano l’una all’altra nel rincorrersi di forme e colori, nel coro a più voci in cui ogni pennellata si accorda all’altra con invidiabile – ma solo apparente – naturalezza, secondo una sapienza tonale, un proceder per velature e trasparenze che vengono all’artista dall’accumularsi di tanto lavoro ma anche da una predisposizione naturale alla leggerezza di tocco, alla raffinatezza di soluzioni. Rose, innanzitutto, come omaggio esplicito ma non banale all’assoluto vertice morandiano, a quei gomitoli di petali screziati, arricciati su se stessi e offerti come doni, che il maestro bolognese ha saputo trasformare in gocce di poesia pura. E poi ireos, giunchiglie, fresie, viole, fiori di primavera e fiori d’autunno, dalie e margherite, papaveri luminosi come una sera di giugno... Il catalogo-erbario di Tano Pisano è ricchissimo di protagonisti, anche assai diversi l’uno dall’altro ma tutti ‘ritagliati’ come isole di vita nel bianco neutro, non invasivo, della pagina: uno spazio cercato, difeso, protetto e che, a sua volta, protegge i fiori da distrazioni e impurità; un’atmosfera rarefatta ma pervasa da vibrazioni; un’aria leggera, sospesa, in cui pare appena accennarsi il movimento di uno stelo o, piuttosto, di quella sua crisalide colorata in cui si stempera la fisicità, il peso del minimo frammento di natura.
Si sa, come consiglia l’inarrivabile Candide, «il faut cultiver notre jardin» e questo l’artista ha fatto per conoscersi meglio, per meglio dirsi agli altri, nel tentativo – riuscito – da dar volto a emozioni e pensieri troppo delicati per venire esposti senza il filtro di questi petali al limite della dissoluzione, di queste luci sommesse e pur brillanti. Emozioni e pensieri legati alla caducità della vita, al profumo ormai appena avvertibile di primavere lontane, all’intuizione di un tempo ‘altro’ che vive di intensità e di pienezza, al riparo dalle offese del quotidiano.
In questi fiori recisi e dunque già segnati dal destino, in questi petali acuminati come ferite aperte o arrotondati come carezze, oltre all’amore per la grande arte e per la grande musica europea (come non pensare, per loro, a certi accordi cristallini e malinconici delle Gymnopédies di Eric Satie?) si ritrova anche la lezione del pensiero zen, ancor più avvertibile in un piccolo gruppo di fogli in cui le presenze vegetali e animali – fiori e insetti che dialogano fra loro fino a fondersi e a confondersi – assumono la nudità di componimenti haiku, la loro semplicità ed energia vitale, in una dimensione analoga, stilisticamente conclusa ma poeticamente aperta a evocazioni del desiderio, a suggestioni dei sensi, a intuizioni del pensiero.
E l’effimera, struggente bellezza dei fiori di ciliegio giapponesi, simbolo di perfezione proprio nella loro caducità, ritorna nel giardino segreto di Tano Pisano, nei suoi Fiori di seta che come farfalle multicolori sembran volare ancora per un giorno e come carezze appena accennate sembran vibrare sulle onde dell’aria. Fiori come tracce, essenze disciolte nell’acqua, foglie morte, impronte di ciò che non è più e pur vive in noi con la forza di un ricordo, di una musica che improvvisa ritorna, di un profumo che, senza difesa, fa rinascere l’emozione.

Marilena Pasquali